L'INTERVISTA
Cara Varese, non sbagliare ancora
Lo splendido novantenne Ferruccio Zuccaro tra ricordi e decadenza della città. E un giudizio duro sui grandi temi d'attualità: teatro opera indispensabile, ma non nell'ex caserma Garibaldi ("costa troppo"), parcheggio al Sacro Monte opera da evitare
La vivacità intellettuale fa novanta. Come la paura, che in questo caso non esiste e se esiste è una beffa. Novanta gli anni di Giorgio Albertazzi: fresco e indomabile, ha appena recitato Eliot sulla terrazza del Mosè al Sacro Monte. Gran serata di teatro sotto le stelle. Novanta l'età di Giulio Questi: lucido e combattivo, ha portato il suo libro di ricordi partigiani in finale al Premio Chiara. Novanta le primavere di Ferruccio Zuccaro, gran varesino, avvocato di idee liberali, giornalista in gioventù, fabbricatore e frequentatore di cenacoli culturali, raffinato assaggiatore di quei piaceri che solo ad alcuni è dato di cogliere. Contemplando la bellezza nell'arte, l'intelligenza nelle creature.
Lo incontriamo tra i quadri del suo studio. Tanti, tutti simbolici. Uno mostra tre giudici in udienza penale che hanno davanti a sé una suffragetta con le gonne alzate fino a mostrare il suo boschetto d'amore. Sul muro alle spalle della corte una scritta: la legge non è uguale per tutti.
Di che cosa parliamo? Di tutto sapendo che a 90 anni tutto si può dire. Anche lo scomodo. E avendo presente che, più l'orizzonte del passato si allontana, più appare sfavillante.
Zuccaro cognome di Lecce. Il papà di Ferruccio veniva da lì. capocontabile alla conciaria di Valle Olona, nei giorni bui della resa dei conti dopo la Liberazione fece scudo col suo corpo al principale, Achille Cattaneo, minacciato di rappresaglia da alcuni dei suoi operai: "Quest'uomo non ci ha fatto nulla, perché prendersela con lui?". Varesina la mamma. Sul viso del novantenne un'emozione appena percettibile: "Era la sarta della migliore nobiltà di Varese, i Litta, i Ponti, aveva la bottega in via San Martino dove sono nato io. Dovete sapere che la via San Martino era uno dei due poli, distinti e separati della città. L'altro ruotava attorno a piazza Porcari. I portici erano il collegamento tra entità urbane distinte, ciascuna con le sue usanze. Ricordo il caffè Cavour, a metà del corso, luogo d'incontro della borghesia illuminata. Ricordo un maestoso albero di cachi in un giardino che cominciarono a spianare, dove finisce la via San Martino, per costruire il tribunale".
Per questo ha fatto l'avvocato? Ispirato dal sacro luogo sorto davanti a casa sua?
"Anche. Furono decisive le amicizie di mio padre che era compaesano dell'allora procuratore del Re, Maglietta, e del presidente del tribunale, Robertazzi, che uscito dalla magistratura aprì uno studio legale. Fui certamente condizionato e nel 1951 cominciai la carriera, in via Piave 3, un palazzo di avvocati, medici, assiocuratori. Ma io avrei fatto volentieri il giornalista se non fosse stato vittima di uno scherzo da preti".
Scherzo da preti?
"Sì, un regolamento di conti tra prelati mi costò il posto di redattore al giornale "L'Osservatore", erede di un'altra testata cattolica "L'Italia." Ci ero entrato per meriti che mi avevano riconosciuto negli anni in cui avevo fatto il corrispondente da Varese. Senonché ne divenne direttore don Ernesto Pisoni, per trame curiali, ed egli come prima cosa chiese la mia testa. La comunicazione mi venne recapitata in redazione da monsignor Bicchierai, eminenza grigia della diocesi. Licenziato in tronco".
Per aver fatto che cosa?
"Per aver criticato sul "Mattocco", giornale satirico che si pubblicava a Varese, un articolo comparso su "La Via", rivista culturale diretta da Pisoni prima di trasferirsi all'Osservatore. L'aveva scritto una certa Italia Davy celebrando corpi nudi che si muovevano nell'acqua e altre scene erotiche, scandalo per una testata diretta da un prete. E un altro prete, don Gildo, mi invitò, a nome di personaggi della Curia milanese, a difendere la morale cattolica vilipesa. Ciò che io feci con l'entusiasmo dei vent'anni firmando con lo pseudonimo "Spillino" il mio articolo. Non sapevo d'essere strumento di una vendetta ordita nelle sacrestie per chissà quale ragione".
Facciamo un bel salto: Varese 2014. Nebbia, aria stagnante, debiti e incomprensioni, in crisi tutti i simboli della città: questo dicono gli osservatori severi. E lei?
"Io ho assistito a una decadenza generale inevitabile, legata ai tempi nostri, e a una seconda locale determinata da scelte, da colpe, da errori. Checché se ne sia detto e se ne dica, Varese ha avuto grande vivacità culturale e politica. Merito dei suoi figli più sapienti e merito di un luogo la cui eliminazione ha segnato l'inizio di una lunga, irrefrenabile discesa. Parlo del Teatro Sociale: correva l'anno 1953 quando fu raso al suolo. Non era solo un palcoscenico, si badi bene, era il collante che teneva insieme il meglio di Varese. Da quel momento le famiglie importanti si sono divise, ha prevalso l'individualismo, ci sono stati, come capita, incidenti di percorso generazionali, si è perso molto".
Sì, ma perché questi uomini illustri, molti dei quali palchettisti, non si opposero a quello scempio culturale e urbanistico? Il dubbio che tanto illuminati non fossero viene. O no?
"«Furono tutti turlupinati da un ingegnere, Camillo Lucchina, che all'epoca aveva voce in capitolo in municipio e rappresentava i Bonecchi, proprietari dell’immobile. Egli dipinse un quadro fosco. Disse che il teatro cadeva a pezzi, che ci volevano troppi soldi per ripararlo. No, non ci fu speculazione. Allora eravamo meno corrotti di adesso. Ci fu miopia, stupidità. E ci fu, tra i varesini abbienti, la madre di tutte le rovine dell'uomo: la gelosia".
C'è un romanzo del suo amico Piero Chiara: Vedrò Singapore. Varese rivedrà mai un teatro di pietra?
"Al posto della caserma Garibaldi mai. Conosco quell'edificio, le sue mura problematiche. Costruire lì è un salasso patrimoniale che nessuno si farà carico di sopportare. Il mio amico e collega Attilio Fontana, che stimo tanto, è vittima di un abbaglio e di interessi non certo suoi, come quelli attorno al parcheggio alla Prima Cappella".
Pane al pane…
"Guardate, abito da quelle parti e avrei tutto l'interesse, io sì, ad avere un parcheggio pubblico fuori della porta di casa. Ma è un errore quell'opera. Troppi rischi per i monumenti e pochi benefici. Ci fosse ancora monsignor Macchi, cui dobbiamo la salvezza culturale del Sacro Monte, si metterebbe di traverso davanti alle ruspe".
Lei fu favorevole al murale di Guttuso alla Terza Cappella?
"No e Macchi quasi mi tolse il saluto, anche perché ero stato testimone scomodo di quello che avveniva nel cantiere dove l'affresco originario, la "Fuga in Egitto" del Nuvolone, veniva audacemente rimosso. Mi trovavo a passare da lì, sentii delle voci, aprii la porticina di lamiera e, vedendomi, monsignore trasalì. Con lui c'era qualcuno importante. Non escluderei che fosse Andreotti".
Insomma lei non vuole né un teatro né un parcheggio…
"No, il teatro lo voglio eccome. C'è l'ex Politeama in piazza XX Settembre, di proprietà della casa di riposo Molina. Quel progetto, sostenuto da architetti e urbanisti competenti, è stato abbandonato. Errore grave al quale si può porre rimedio. L'avventura nell'ex caserma Garibaldi tutti sanno che è un salto nel vuoto".
Le piace Renzi?
"Ho fiducia in lui. Mi ricorda leader che l'Italia conobbe subito dopo la Liberazione".
Non è un mistero la sua vicinanza alla Massoneria. Ancora attuale aderirvi? E perché farlo di nascosto?
"Una raccolta di intelligenze libere al servizio della società non sarà mai cosa inutile. Il riserbo deriva da esigenze storiche: in Italia la politica, e non solo, ha sempre osteggiato i massoni. Non è così altrove, vedi gli Stati Uniti. Chi può temere portatori sani di ideali come la fratellanza e lo studio? Un cardinale ha detto: come cattolici avremmo tanto bisogno della massoneria. Potrebbe insegnarsi qualcosa".
Ci lasciamo con una definizione della vecchiaia?
"No, perché la vecchiaia non esiste".
Un libro che consiglierebbe ai giovani…
"Cuore di Edmondo De Amicis".
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