IL LIBRO
Silvia Pareschi, l’americana
Doveva succedere che Silvia Pareschi scrivesse un libro. Per chi lavora con le parole l’idea di scrivere un libro è come un tarlo che lavora nel silenzio, per anni. La regola vale anche per Silvia che si è guadagnata sul campo un posto fra i più importanti traduttori italiani: è grazie a lei se leggiamo Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Zadie Smith o Jamaica Kincaid. Silvia ama le parole, parlate e scritte e alte e basse, ama la riflessione che il suo lago suggerisce (è nata a Laveno) ed è anche un po’ pazza, nel senso migliore: che cos’è un libro riuscito se non una miscellanea di tutto questo? Ecco dunque «I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani» (Giunti), un esordio dedicato agli aspetti meno noti degli Stati Uniti, Paese che Silvia conosce bene vivendo lì, da tempo, sei mesi l’anno. Divertente tra memoir, reportage e fiction, lontano dai cliché dell’italiana all’estero, il libro spazia dalla wilderness californiana, al palazzo del Porno di San Francisco, da una carrellata sulle religioni americane, in cui trova spazio anche un ordine di uomini barbuti travestiti da suore, a un viaggio coast to coast in Greyhound.
Silvia, dopo tante traduzioni, un libro. Non è un passaggio così scontato...
«Per molto tempo a chi mi chiedeva se un giorno avrei scritto un libro ho risposto di no, perché dopo aver tradotto tanti autori eccellenti pensavo che la mia scrittura non potesse reggere al confronto. Questo lo penso ancora, però penso anche che nel traduttore ci sia necessariamente qualcosa dello scrittore, se non la capacità di costruire una storia, almeno l’abilità e il gusto di plasmare la lingua e metterla al servizio di una storia. Per questo, quando mi sono accorta di avere qualcosa da raccontare, mi sono detta che forse potevo anche scriverlo. La scrittura ha preso poco spazio, qualche ora mattutina rubata alla traduzione, ed è cresciuta piano piano e senza troppe pretese. Per questo mi definirei più che altro una traduttrice prestata alla scrittura».
Il titolo è il doveroso omaggio di una springsteeniana?
«Il titolo è preso da uno dei racconti, e sì, è la storia di una sedicenne appassionata di Springsteen che trova un paio di jeans che forse sono appartenuti al suo idolo».
Quale tonalità hai scelto per raccontare l’America amata e odiata?
«L’ironia è senz’altro il tono che più mi si confà. A volte ambisco addirittura a essere comica, cosa quanto mai difficile per uno scrittore. Quello che desidero per il mio libro è che racconti da un punto di vista insolito, riuscendo anche a divertire».
Per tradurre meglio a un certo punto hai lasciato Laveno e sei andata a vivere in California…
«Da circa otto anni vivo a San Francisco per metà dell’anno, e per l’altra metà rimango felicemente a casa mia, sul lago Maggiore. Questo mi aiuta a mantenere un buon equilibrio fra l’immersione nella lingua e nella cultura di un Paese e la necessità di continuare a guardare quel Paese con un certo distacco. Si tratta di un equilibrio fondamentale per il mio mestiere, perché il mio compito è fare da ponte fra due lingue e due culture e posso svolgerlo bene solo mantenendo una fondamentale alterità rispetto alla cultura di partenza».
Che cosa ti piace degli Usa e cosa invece non sopporti?
«Mi piacciono l’intraprendenza e l’ottimismo, la mancanza di certe pastoie prima di tutto mentali che spesso limitano noi italiani. Non mi piacciono il capitalismo spietato, l’ossessione per le armi da fuoco, la pena di morte, l’enorme e crescente divario tra ricchi e poveri, la mancanza di paracadute sociali che rende facile perdere tutto e rimanere in mezzo alla strada, il sistema sanitario privato che cura solo chi se lo può permettere e abbandona tutti gli altri… Devo continuare?».
Nel tuo blog, Nine hours of separation, non è nascosta una grande simpatia per Bernie Sanders, uno dei candidati alle primarie del Partito democratico americano in vista delle elezioni di novembre. Cosa apprezzi di lui?
«Il programma di Sanders è incentrato su molti problemi che io considero importanti, sia interni agli Usa - lo strapotere di Wall Street, il dominio delle assicurazioni che rende catastrofico il sistema sanitario americano, le enormi disuguaglianze sociali - sia globali, primo fra tutti il cambiamento climatico. Apprezzo la sua incontestabile onestà e ammiro la sua capacità di attirare tanti giovani che vedono in lui una speranza. Sono felice che intorno a Sanders si sia creato un movimento di opinione che spero cresca e riesca a cambiare lo stato attuale delle cose».
Credi che vincerà?
«No, so che Bernie non potrà vincere, e non entro nel merito di un sistema elettorale che non lo ha favorito, perché comunque credo che gli Usa non siano ancora pronti per averlo come presidente. Non ci resta che sperare in una vittoria di Hillary Clinton.
Tra le cose che ti piacciono degli States c’è Jonathon Keats, lo scrittore e artista che hai sposato. Quali sono i vantaggi di vivere con un americano?
«Il continuo confronto, riuscire a vedere il mio mondo in modo nuovo attraverso i suoi occhi, lasciarmi guidare da lui nella scoperta del suo mondo e, al contempo, mostrargli come esso appare attraverso i miei occhi. Vivere con uno straniero - quando funziona - aiuta ad aprire la mente».
Le tue traduzioni sono sempre stata lodate, ultima in ordine di tempo quella di «Purity» di Jonathan Franzen, che ormai è un tuo amico. Ma che cosa significa tradurre?
«Tradurre è una questione soprattutto di equilibrio, quello fra l’aderenza al testo, l’obiettivo principale, e la resa in un italiano non tanto “bello” quanto “autentico”. Il risultato finale, per citare Calvino che ha scritto alcuni saggi illuminanti sulla traduzione, deve essere “una prosa che si legga come fosse stata pensata e scritta direttamente in italiano”. Non a caso una traduzione mediocre è quella che usa un italiano ricalcato sulla lingua dell’originale, originale che rimane visibile in trasparenza sotto la versione tradotta, oppure un italiano troppo libero, lontano dall’originale».
Le parole sono importanti, pesano: vorrei una tua riflessione.
«Di questo te ne accorgi quando lavori con le parole, quando, come nel mio caso ma anche nel tuo di giornalista, scrivi cose che altri leggeranno e sulle quali si formeranno un’opinione. Ora, con i social network, tutti hanno la possibilità di esprimere il proprio parere, a volte senza rendersi conto che non stanno facendo due chiacchiere in un bar, ma che le loro parole potrebbero potenzialmente raggiungere un grandissimo numero di persone. Io amo il silenzio tanto quanto amo la buona conversazione, e detesto il rumore tanto quanto detesto le parole inutili, dette senza necessità e solo per riempire un vuoto, o quelle usate come armi, volutamente o sbadatamente, per ferire gli altri. Quando si lavora con le parole queste cose si imparano con l’esperienza, ma le parole sono un patrimonio di tutti e tutti dovrebbero riflettere meglio prima di usarle, e cercare di non farsi imbrogliare da chi le usa in modo ingannevole».
Silvia Pareschi presenta «I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani» sabato 21 maggio alle ore 17 alla Galleria Boragno di Busto Arsizio, in via Milano 4;
domenica 29 maggio alle ore 16 al Maga di Gallarate nell’ambito di «Scrittrici insieme»:
martedì 14 giugno alle ore 18 alla biblioteca di Laveno Mombello.
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