VERSO LA SENTENZA
Morte da amianto, imprenditore a processo
Tubista ucciso da un tumore dopo 17 anni, il decesso nel 2011. La Procura ha chiesto una condanna a sedici mesi
È un processo di oggi che cerca di fare chiarezza su una morte del 2011, ma le sue radici sono nel secolo scorso, negli anni che vanno dal 1974 al 1984. In quel periodo l’operaio Antonio Casula lavora in un’importante azienda della provincia, con sede nel Tradatese, che costruisce impianti industriali (grandi serbatoi, scambiatori di calore per centrali energetiche, gasdotti, oleodotti e impianti di depurazione). L’uomo, che porta a casa uno stipendio da quando aveva 15 anni, può vantare un’ottima salute, non fuma ed è donatore di sangue. Eppure, quindici anni dopo aver lasciato la ditta in cui faceva il tubista, si ammala e il responso dei medici è per lui quasi una condanna a morte: mesotelioma pleurico epitelioideo, una patologia che deriva nella quasi totalità dei casi da esposizioni non protette all’amianto e di fronte alla quale le possibilità di sopravvivenza sono praticamente nulle. E infatti Antonio, che pure si sottopone a chemioterapia, muore per il tumore nel 2011, a soli 55 anni, lasciando una moglie e una figlia non ancora maggiorenne.
Del suo caso la Procura di Varese inizia a occuparsi già nel momento in cui il mesotelioma pleurico viene diagnosticato, a partire da una segnalazione del registro mesoteliomi. La prima ipotesi di reato è quella di lesioni colpose gravi a seguito di violazioni delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e il pubblico ministero che indaga è Tiziano Masini. Su incarico della Procura l’Asl mette in relazione il tumore con l’esposizione all’amianto che Casula avrebbe subìto inconsapevolmente quando faceva il tubista nel Tradatese, dal 1974 al 1984, e la pubblica accusa conclude che la ditta non aveva fatto allora tutto quel che doveva per salvaguardare la sua salute. Di qui, dato che nel frattempo l’operaio è deceduto, il processo che si avvia oggi alle battute finali. Un processo per omicidio colposo in cui la morte del tubista è messa in diretto collegamento con il “costante contatto” non protetto con “tubature coibentate con amianto”. E un processo in cui è imputato uno dei tre amministratori della ditta all’epoca (l’unico ancora in vita), che ha 84 anni e al quale si contesta di aver omesso “di adottare qualsivoglia procedura che affrontasse o riducesse i rischi lavorativi derivanti da esposizioni di polveri” e anche di aver omesso “di informare e formare” il dipendente che lavorando si esponeva all’amianto.
Come detto, il processo è oggi alle battute finali e la sentenza del Tribunale è attesa per il prossimo 5 ottobre. In aula il pubblico ministero Antonia Rombolà ha chiesto la condanna dell’imputato a un anno e quattro mesi di carcere, mentre i difensori, gli avvocati milanesi Claudia Manfrè e Massimo Gianola hanno chiesto l’assoluzione del loro assistito, ritenendo che all’epoca la ditta avesse fatto tutto quel che poteva per tutelare la salute del lavoratore (i cui familiari si sono costituiti parte civile con l’assistenza dell’avvocato varesino Andrea Fontana). E il caso appare complesso perché si parla di una malattia che ha un lunghissimo periodo di “incubazione” e perché una legge con le “Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto” fu licenziata dal Parlamento solo nel 1992. Intendiamoci: già negli anni ‘40 del secolo scorso si sapeva che l’amianto era pericoloso per la salute e già negli anni Settanta iniziò la mobilitazione di cittadini e lavoratori per l’eliminazione dell’asbesto dalle aziende. Ma si può dire che tra il 1974 e il 1984 fosse un dato certo il collegamento tra l’esposizione all’amianto e la possibilità di insorgenza di un tumore decenni dopo? Che ci fosse cioè, anche a livello normativo, quella certezza che solo in seguito ha prodotto una maggiore attenzione per i rischi collegati all’amianto? Per la Procura di Varese il dubbio non ha però ragion d’essere, tra l’altro sulla base di quello che la Cassazione ha stabilito nel 2002: non importa che il rischio cancerogeno sia stato conosciuto solo successivamente, dato che “le misure di prevenzione da adottare per evitare l’insorgenza di una malattia invece da tempo nota come l’asbestosi erano identiche a quelle richieste per eliminare o ridurre gli altri rischi non conosciuti”.
Va ricordato, infine, che altri quattro dipendenti della stessa ditta si sono ammalati e sono morti di mesotelioma, ma le indagini sui loro casi si sono concluse tutte con archiviazioni.
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