A VARESE
Gualtiero, il bimbo che gioca da sempre a fare un mestiere da grandi
Dire tutto di lui è impossibile. Dimenticare qualcosa sarebbe davvero troppo semplice. È diventato un’icona così importante che il suo nome parla per lui: Gualtiero Marchesi. Figlio di due albergatori, dopo varie esperienze all’estero si mise in proprio nel 1977 aprendo il suo primo ristorante a Milano in via Bonvesin de la Riva, e da quella cucina sono uscite le sue creazioni più ardite che avrebbero rivoluzionato la cucina italiana. Un piatto per tutti: il riso oro e zafferano che ancor oggi è forse il suo più famoso, in assoluto. Molte volte è stato replicato, ma mai con lo stesso risultato. Quella foglia d’oro commestibile quadrata appoggiata sul classico risotto giallo in un piatto col bordo nero è semplicemente «Gualtiero Marchesi».
Tra i suoi credo fortemente perseguiti quello che un cuoco debba conoscere la tecnica, sapere come si usa la materia prima e studiare, applicarsi e provare. Nasce così Alma nel 2004 a Colorno, dintorni di Parma, scuola internazionale di cucina italiana. E il pensiero dell’insegnamento, della conoscenza e della pratica ritorna poi nel 2014 con la nascita dell’Accademia Gualtiero Marchesi a Milano e che nel 2018 sarà ufficialmente operativa e Varese con sede a Villa Mylius. Nel 2010 per i suoi 80 anni si è «regalato» la Fondazione Gualtiero Marchesi che ha come missione la diffusione delle arti attraverso il gusto.
È considerato il fondatore della nuova cucina italiana perché ha saputo unire gli antichi sapori con nuove capacità ed è il cuoco italiano più famoso al mondo. I suoi piatti dialogano costantemente con la tanto amata arte come ad esempio i «dripping» che si rifanno alle opere di Pollock. E questo rapporto stretto è alla base del suo ultimo libro «Opere/Work» in cui i piatti sono appunto opere d’arte ritratte come tali e che presenterà alla libreria Feltrinelli di corso Moro a Varese sabato 2 aprile alle ore 18 e lunedì 4 aprile alle 17 al ristorante Buongusto di viale Pirandello a Busto Arsizio.
Maestro di tanti chef stellati da Cracco a Oldani, da Knam a Berton, solo per citarne alcuni, ma che di «stelle» non ne ha. O meglio, le aveva. Fa storia il suo «gran rifiuto». Nel 1986 fu il primo chef italiano a ricevere le tre stelle Michelin, il massimo riconoscimento della guida francese, ma nel 2008, dopo averne contestato il metodo di valutazione, le rispedì al mittente (l’unico ad averlo fatto) affermando «giudicatemi, ma non datemi voti». E oggi a 86 anni (n.d.r. compiuti il 19 marzo) il Maestro è ancora il metro indiscusso della cucina italiana.
Maestro prima di tutto tanti auguri. Come ha festeggiato il compleanno numero 86?
«Con un libro di Opere, di soli piatti, solo immagini senza ricette. Un libro da sfogliare, centrato sulla bellezza. Si intitola Opere/Works, appunto».
La sua è una famiglia di musicisti (n.d.r. sua moglie Antonietta è una pianista) in cui spicca uno chef, lei. Si sente il direttore d’orchestra?
«Giunto a questo punto della mia vita, io mi definisco un compositore».
Chi cucina a casa sua?
«Cucinava mia moglie e nella prima e unica sfida ha vinto lei con un piatto siciliano: la caponata di melanzane».
È vero da ragazzino non pensava di diventare cuoco?
«Sono nato in un ambiente dove si faceva cucina e i miei genitori hanno lentamente seminato. Poi, con il tempo, ho finito per cucinare ad arte. Avrei potuto dipingere o suonare e, invece, ho fatto il cuoco, badando a esprimere ciò che avevo dentro».
Si ricorda il suo primo piatto?
«Ragù di rognone e animelle, salsa di foie gras e nocciole tostate».
Adora la cucina giapponese, è vero?
«Si, per la sua semplicità e per il modo magistrale di porgerla, la semplicità».
Della sua carriera professionale, di cosa va più orgoglioso?
«Di quello che ho fatto ieri e di quello che farò domani».
Lei crede e promuove il copyright dei piatti. È una missione o solo una provocazione?
«La seconda, ma le provocazioni spesso sono istruttive».
Diffida dei critici e incita a farlo, tanto che è stato l’unico (e il solo) ad aver rifiutato le stelle Michelin. Chi sono per lei i critici?
«Chi critica i critici? La questione, in fondo, è molto semplice. Un critico dovrebbe raccontare, partecipare, discutere, condividere le scelte del cuoco, non sedersi in incognito, tornare a casa e scrivere la sua critica».
Lei che tipo di cliente è?
«Curioso e legato alle radici. Sempre interessato a imparare qualcosa e a sentire la devozione degli altri per la materia prima e le tradizioni, pur essendo convinto che vadano sempre attualizzate. Sto facendo un viaggio alla scoperta della Regione Lombardia con la critica d’arte Beba Marsano. Ogni settimana incontriamo produttori, scegliamo dove degustarli, visitiamo luoghi segreti e musei. Meraviglie, gioielli. Rivedo luoghi della memoria e mi lascio sorprendere da quelli che non ho mai visto anche se io in Lombardia ci sono nato e vissuto».
Da sempre crede che la formazione sia l’elemento imprescindibile per diventare uno chef di alto livello: creatività e improvvisazione possono nascere solo da un lungo tirocinio. E con Alma, la sua scuola, e ora con l’Accademia varesina, lo conferma ancor di più.
«Certo, ad Alma, si apprendono le basi, si impara la tecnica, in mancanza della quale non si va da nessuna parte. L’Accademia Gualtiero Marchesi aggiunge la cultura e la possibilità di affinare il proprio linguaggio, migliorandolo e ampliandolo. Abbiamo già iniziato i primi corsi a Milano, in via Bonvesin de la Riva in attesa di trasferirci nella nuova sede di Varese».
Recentemente ha confidato di non avere mai mangiato la pizza, ma che ora è scoppiato l’amore per un piatto così popolare. Anzi, sarà la sua prossima sfida. Cosa è successo e soprattutto come sarà la pizza Marchesi?
«Per il momento le posso solo dire che, in virtù della legge del contrasto, la pizza deve essere croccante sotto e morbida sopra, quindi non sottile, ma neanche troppo soffice».
Cosa ne pensa dello street food?
«Non bisogna mai assolutizzare le situazioni. Preferisco comunque sedermi a tavola».
Le trasmissioni culinarie non le piacciono, non sopporta la cucina-spettacolo. Com’è che alla fine ha ceduto al fascino del piccolo schermo per La cucina della domenica?
«Non ho ceduto, ho deciso di fare una trasmissione incentrata sull’apprendimento e non sull’agonismo fine a se stesso».
Tutti parlano di cucina, di impiattamento, di equilibrio e tocchi di acidità. Come vede il futuro della ristorazione?
«Spero che cambi, che si de-spettacolarizzi. Ultimamente, mi capita di mangiare in locali del cremonese, del mantovano della bergamasca dove c’è calore, dove esiste una cucina d’impronta femminile, una cucina cioè che mette in tavola ciò che il territorio mette a disposizione. Una cucina del microclima».
Lei è stato il maestro di tanti cuochi diventati poi molto famosi. Chi le è rimasto nel cuore e perché?
«Devo dire che molti dei miei allievi son riusciti a dare un’impronta personale alla loro cucina e di questo sono orgoglioso. Il maestro non era poi così male. Ce ne sono altri che mi sono stati così vicini al punto di non sapere più chi aveva ideato il piatto, dove iniziava e dove finiva il mio o il suo apporto di idee e di soluzioni».
Tra i suoi allievi anche chef varesini tra cui il neo stellato Silvio Salmoiraghi. Ne ha un ricordo?
«Lavorava bene e sodo».
Chi è davvero un buon cuoco?
«Un bambino che gioca tutta la vita a fare un mestiere da grande».
Nella sala del suo ristorante i clienti possono vedere su di un tablet in anteprima il piatto che mangeranno. Ha così aperto le porte alla tecnologia come filo diretto con i suoi ospiti. Come mai?
«Bisogna mostrare per far capire».
Le immagini sono molto importanti tanto che per i suoi 86 anni si è regalato un libro di piatti (e non ricette) molto simile ad un catalogo d’arte. Qual è l’idea che sta alla base di Opere/Works?
«Ho sempre avuto una predilezione per l’arte e ho conosciuto molti artisti in tutti i campi. Questo libro è il mio catalogo».
E appena passata Pasqua. Una curiosità: cosa si è mangiato a casa Marchesi?
«A Pasqua, la colomba. Tanti auguri».
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