LA STORIA
Emanuele ucciso due volte
Il 14 ottobre di quarant'anni fa fu sequestrato il diciassettenne Riboli, studente dell'Ipsia ucciso dalla 'ndrangheta e mai più ritrovato. Liberati i suoi assassini per prescrizione
Amen per un ragazzo di 17 anni che andava a scuola in bicicletta e amava le moto da cross: sequestrato a due passi da casa, imprigionato chissà dove, ucciso col veleno per topi. O forse dato in pasto ai maiali.
Amen per un’inchiesta giudiziaria cominciata male, durata troppo, finita peggio: i giudici di Milano nel 1999 hanno chiesto scusa alla famiglia «per la serie incredibile di errori commessi dallo Stato».
Hanno dovuto mandare assolti i rapitori condannati in primo grado, arrendendosi ai tempi disperati della giustizia italiana: prescrizione per tutti, eccezione per il capo dei capi, Giacomo Zagari, e un suo sodale, entrambi già ergastolani.
Amen, infine, per un padre, una madre, quattro fratelli cui è stata inflitta la pena suprema: non hanno mai potuto posare un fiore su una tomba.
Emanuele Riboli, di Buguggiate, alle porte di Varese, studente dell’istituto per periti industriali: 1974-2014.
Sono passati quarant’anni e si può solo piangere la sconfitta di quanti, magistrati e investigatori, non avevano capito allora che l’ostaggio era finito nelle mani di una cosca calabrese. E non l’avevano capito perché nessuno sapeva, all’epoca, che la ’ndrangheta aveva attaccato come una metastasi i tessuti ricchi della società nel profondo Nord. Qualche questore addirittura lo negava ai convegni celebrando la provincia immune da certi virus maligni.
Invece boss, affiliati e picciotti erano qui dagli Anni ’60, molti al soggiorno obbligato. Avevano cominciato con il contrabbando di sigarette, poi si erano dedicati al più vile dei ricatti: portare via un uomo, in molti casi un figlio, e chiedere un riscatto per la sua liberazione.
Ma in questo caso gli uomini d’onore rinnegarono se stessi: incassarono in due rate 250 degli 800 milioni di lire richiesti, eliminarono il rapito.
Forse perché aveva riconosciuto qualcuno dei banditi, gente del suo paese, addirittura operai nella carrozzeria di suo padre.
Forse perché vollero infierire: se uccidiamo il papà, lui non soffre abbastanza.
Se gli uccidiamo il figlio, secondogenito, lo condanniamo al patimento estremo, il più lento, il meno sopportabile.
Questo spiegò nel suo memoriale di pentito Antonio Zagari, erede "infame" del santista Giacomo. Questo disse, prima al pubblico ministero di Milano Armando Spataro, poi nell’aula-bunker al processo «Isola felice» dando senso umano alla sua storia criminale: ho ucciso tante volte, ho brucato per anni l’erba del delitto, ma quando ho saputo che fine avevano fatto fare a quel ragazzo, amico di giochi di mio fratello Enzo, ho sentito come un graffio nella coscienza e ho svoltato.
Un’inversione a "U", convinta, drammatica: fu Antonio Zagari a sventare l’ultimo rapimento in provincia di Varese nel gennaio del 1991. Accompagnò lui quattro soldati della ’ndrangheta davanti alla casa di Antonella Dellea a Germignaga, nel Luinese, ma prima si era accordato con i carabinieri che in quella notte di gelo sterminarono il commando. Mandando un segnale forte e chiaro nella Locride dalla quale si era mossi i quattro: il velo dell’omertà si era infranto per sempre, uno dei "loro" aveva tradito il sangue del proprio sangue.
Alemagna, panettoni, Lazzaroni, biscotti, Parma, casseforti: fino al 1974 l’Anonima sequestri aveva puntato al bersaglio grosso delle dinastie industriali. I Riboli, artigiani diventati imprenditori, uno stabilimento nel Varesotto, un altro appena inaugurato a Pescara, segnalarono con la loro tragedia che le cosche abbassavano di qualche grado il mirino del fucile a canne mozze.
Andavano a colpire fuori della cerchia della grandi Milano, portavano il terrore in una provincia tranquilla, quasi svizzera, nella quale non accade mai nulla. Così si diceva ignorando per miopia o forse per orgoglio che proprio in questo «deserto ben attrezzato» (immagine di Indro Montanelli) si muovevano nell’ombra sacerdoti dello stragismo nero, predicatori di odio del terrorismo rosso, padrini d’esportazione mimetizzati.
RISCATTO PAGATO
È una bella giornata d’autunno, s’avvicina il 14 ottobre, anniversario numero quaranta di una ferita mai rimarginata nella pelle e nella memoria di una famiglia, di una vergogna mai rimossa nella coscienza collettiva di un Paese e della sua giustizia. Donatella "Lella" Riboli aveva 18 anni quando alle 22,30 rapirono suo fratello Emanuele. È la più grande di cinque figli.
Suo padre Luigi è morto da tempo, sua madre Bianca ha 82 anni, suo zio Pierino vive col ricordo atroce dei giorni in cui, a bordo di una «126» blindata con una carrozzina sistemata in un portabagagli montato sul tettuccio (un segno di riconoscimento) si recò all’appuntamento con i rapitori in un strada provinciale tra la Toscana e il Lazio.
La prima volta consegnò una valigetta a un individuo col volto mascherato, la seconda gettò un sacco pieno di banconote dal cavalcavia che gli avevano indicato. Che cosa resta di tanto dolore?
Donatella, ancora una bella donna, ha disertato talk show e cronache di giornali in questi anni. Con le sorelle minori Cristina e Lorena, col fratello Paolo, è rimasta in disparte, preoccupata di tenere a freno papà Luigi, carattere forte, e mamma Bianca, quella che in apparenza ha sofferto di più.
Eppure ha avuto un ruolo fondamentale nella storia.
I carcerieri parlavano con lei al telefono, lei registrava le conversazioni schiacciando il pulsante di un magnetofono, lei negava che fuori della villa ci fosse un’auto della polizia: «Vi sbagliate, siamo soli, qui non c’è nessuno. Diteci che cosa volete».
Le intercettazioni erano rudimentali, telecamere-spia e cimici non ce n’erano, l’impreparazione investigativa per un reato inedito alle nostre latitudini era il segno distintivo di marescialli in borghese generosi e improvvisatori: «È una ragazzata», dicevano alla famiglia.
«Non sono professionisti, li prenderemo. Vedrete».
Donatella racconta il primo contatto: «Arrivò una lettera, due giorni dopo il sequestro. L’aveva scritta Emanuele. Diceva che dovevamo pagare, che stava bene. Ma all’indomani della scomparsa di mio fratello, avevamo già ricevuto una telefonata che ci aveva tolto ogni dubbio. Sì, la polizia e i carabinieri sapevano di queste trattative. Non c’era ancora il blocco dei beni. I riscatti allora si pagavano. Errore gravissimo. In casa eravamo uniti in apparenza, divisi sentimentalmente. Nessuno parlava con gli altri di quanto ci era accaduto. Per non suggestionarci a vicenda, credo, per proteggere i fratelli più piccoli. Cristina aveva solo cinque anni. Papà a volte si sfogava, facendo il duro. Poi, se rispondeva a qualche telefonata dei sequestratori, li pregava in ginocchio di lasciare libero Emanuele. La mamma taceva, ha sempre tenuto lontani curiosi e cronisti. Non gli andava che di Emanuele si parlasse sui giornali come del "figlio di", senza badare alla personalità di un ragazzo timido finito in una vicenda più grande di lui. E per lei Emanuele è sempre lì, nella sua stanzetta. Ha ancora tutti i suoi vestiti, come se dovesse tornare da un momento all’altro».
I carcerieri erano spietati. In una conversazione dissero che il ragazzo stava male, sputava sangue. In un’altra fissarono il prezzo: 800 milioni di lire. «Sappiamo che li avete. Pagate».
Pagarono i Riboli, non tutto, ma pagarono, e non rividero mai il figlio che nei mesi prima del rapimento era felice per due cose: la moto Ktm 125, simbolo degli adolescenti in quegli anni, e il cane Ben, un pastore tedesco adottato durante le ultime vacanze fatte in Valtellina.
Potevano pensare saldatori d’officina diventati proprietari di una carrozzeria che un giorno sarebbero finiti i in prima pagina come i re di denari sui quali, nei primi Anni ’70, s’era abbattuta la maledizione dei rapimenti di figli, fratelli, cognati?
Avrebbero immaginato di vivere l’atroce esperienza dei genitori di Cristina Mazzotti, la ragazza della provincia di Como portata via e gettata morta in una discarica vicino a un carrozzino sgangherato?
Donatella s’incupisce: «No, ci sentivamo estranei a simili esperienze. Fatto è che i nemici ce li avevamo in casa, nella fabbrica di mio papà e mio zio Pierino. Enzo Zagari, oltre che compagno di scorribande motociclistiche di Emanuele, era un nostro dipendente. Suo fratello Antonio lo incontravo spesso in paese a Buguggiate. E ricordo il padre, Giacomo sul pullman che prendevo per andare a Varese. Studiavo ragioneria prima che la mia vita cambiasse e fosse segnata per sempre. Enzo e Antonio vennero a dirci che loro non c’entravano col rapimento, che non sapevano nulla. Forse è così, considerando quello che Antonio ha scritto negli anni successivi. E anche quanto ha fatto dopo aver saputo che suo papà aveva organizzato tutto. Ma non ne sono sicura. Sono certa, invece, che l’idea del sequestro si è materializzata dopo l’apertura dello stabilimento di Pescara. Fatto che in fabbrica, qui a Buguggiate, aveva destato un certo scalpore. Eravamo diventati ricchi e quindi potevamo essere colpiti, secondo il sentire comune».
IL RAGAZZO DI CALABRIA
Niente, non succede più niente, dopo la consegna di quei 250 milioni e chissà se la seconda rata, buttata giù da un ponte, è stata davvero raccolta dai richiedenti. Solo sciacalli, uno arrestato a Dusseldorf, voci incontrollate, segnalazioni atroci: il corpo di Emanuele è in una discarica a Travedona Monate, no, è il fondo al lago di Varese. Ricerche con le ruspe, sopralluoghi, non c’è nulla di scientifico nel lavoro di chi indaga. A un certo punto spunta una sensitiva. Sono andati a prenderla in Olanda, l’hanno caricata su un elicottero nella speranza che da lassù il potere divinatorio di una maga svelasse un mistero, aprisse un varco alla speranza. Eccola la prova della scarsa conoscenza di allora, del gap tecnologico che impediva di procedere secondo ragione. Eccola l’impreparazione, comprensibile, non giustificabile, che forse ha vietato agli investigatori di venire a capo, in tempi brevi, di un altro sequestro: quello dell’industriale di Comerio Tullio De Micheli, inverno del 1975.
Mai tornato a casa: sepolto, disse un testimone, tra le macerie di un cantiere alle porte di Milano dopo che la dentiera andatagli di traverso l’aveva soffocato durante un trasporto.
Alla fine la soluzione, amara, del rapimento Riboli è arrivata da una scheggia impazzita della stessa cosca che quel rapimento aveva organizzato: ha parlato un ragazzo di Calabria, si è reso credibile almeno agli occhi del procuratore di Milano Armando Spataro che, col collega di Varese Agostino Abate, ha ordinato la cattura di 150 persone portando in superficie vita, morte e miracoli della ’ndrangheta trapiantata al Nord.
I cronisti non hanno dimenticato una mattinata di metà degli Anni ’90 quando gli elicotteri della polizia, dei carabinieri e della guardia di finanza cinsero d’assedio dall’alto, come in una scena di guerra, una vasta zona tra il Varesotto e il Comasco e gli agenti a terra cominciarono ad andare casa per casa stanando mafiosi.
Pentito: la parola indicava, in origine, la crisi spirituale del peccatore, il suo atto di contrizione. È diventata sinonimo di colui che s’accusa di reati, facendo nomi di altri.
Amen per l’Isola felice.
Amen anche per la tragedia di Emanuele.
La giustizia degli uomini non è arrivata in tempo. Tranne due, che erano già nelle patrie galere, i loro complici non hanno pagato nulla. Ha pagato lo Stato con le scuse: un milione di euro di risarcimento alla famiglia.
© Riproduzione Riservata